A metà del secondo giorno di cammino, sulla seggiovia del Weismatten che da Gressoney ci avrebbe portati al Col Renzola, ascoltavo i ricordi d’infanzia di Rosafrancesca e pensavo all’ultima volta che ero stato su quella stessa seggiovia, quasi trent’anni prima. La montagna, quando ero bambino, era solo neve e piste da sci. I miei genitori mi portavano a sciare a Gressoney, secondo tradizioni e rituali consolidati nel tempo. Ci si andava insieme alle famiglie dei loro amici, che avevano figli della mia età. D’estate, poi, tutti al mare. Sciavo senza entusiasmo, la neve mi affascinava solo quando la vedevo scendere lentamente dietro le finestre, di notte. Sentivo che la montagna nascondeva una magia, un cuore vibrante che durante l’inverno si metteva in letargo per lasciarsi seppellire dal gelo, delle bufere, dagli sciatori distratti e chiassosi.
E così l’ho abbandonata, quella montagna. Per anni. D’inverno la osservavo distrattamente da lontano, dalla pianura, e d’estate me ne andavo al mare. Finché, col passare del tempo e della vita, qualcosa è cambiato. Ho avvertito un richiamo e l’ho seguito. Ho scoperto una montagna diversa. All’inizio avevo solo bisogno di solitudine, di silenzio e di sfide. Mi sono messo in testa di raggiungere tutti i rifugi della Valle d’Aosta. Iniziavo dai più facili, e poi cercavo di arrivare più in alto, di mettere alla prova le mie gambe, il mio fiato. Andavo e tornavo in giornata, stremato e appagato. Ma dopo aver trascorso la mia prima notte in rifugio, ho avuto un’altra rivelazione. Ho scoperto che la montagna non è solo silenzio e solitudine, ma anche condivisione, stare insieme, creare legami. In rifugio si stringono amicizie, si ascoltano voci, si riconoscono similitudini, perché il calore umano è l’unico conforto, e tutto è più vivo, più vicino.
Molte camminate e diversi rifugi dopo, è arrivata la prima edizione del festival “Il Richiamo della Foresta”. Nel bosco di larici di Estoul, un venerdì di luglio, nonostante la pioggia, abbiamo ascoltato le parole di scrittori, artisti e montanari, ci siamo emozionati, abbiamo ballato e fatto festa sotto il tendone fino a tarda notte. Per nulla al mondo mi sarei perso la seconda edizione, e quando ho saputo di “Un filo per tre valli”, il trekking per raggiungere il festival a piedi attraversando tre valli e partendo dalla Val Vogna – una vallata laterale della Valsesia, stretta, selvaggia e incuneata fra le montagne – ho deciso seduta stante che mi sarei iscritto. La traversata seguiva un’antica via di migranti e viandanti, che dalla Valsesia e poi della valle del Lys - a Gressoney - si dirigevano verso i mercati della Svizzera, dell’Austria, della Germania.
La mattina della partenza mi sono alzato presto, elettrizzato. Sognavo quel momento da settimane. Al punto di ritrovo, Ca’ di Janzo, sopra Riva Valdobbia, eravamo una quindicina. Molti avevano desistito perché le previsioni mettevano temporali per due giorni, e anch’io ero piuttosto preoccupato. Roberta, organizzatrice e nostro punto di riferimento, era emozionata e incoraggiante. Mentre ci leggeva un breve comunicato che spiegava come fosse nata l’iniziativa, grazie al lavoro congiunto delle associazioni coinvolte, il sole basso del mattino la illuminava di lato. Il progetto - forse per la prima volta - riusciva a unire attraverso un filo immaginario le tre vallate, Val Vogna, Valle del Lys e Val D’Ayas, separate dalle vette eppure legate da una storia antica di popoli che, seguendo il nostro stesso percorso, le attraversavano sfidando la fatica e gli elementi.
Io mi guardavo intorno per studiare i compagni di viaggio. Bruno, il marito di Roberta, indossava una cuffia gialla e un gilet di maglia sulla t-shirt tecnica. Aveva un’aria rassicurante. C’erano due svizzeri, il primo, Thomas, parlava poco italiano, Rolf invece lo parlava con un accento elvetico e non stava zitto un momento. Una coppia di Milano, Paola e Sergio, sui cinquant’anni, aveva dormito lì fin dalla sera prima al Relais Margherita, nostro punto di ritrovo. Quando sono arrivato mi hanno scambiato per la guida, forse perché ero già pronto, lo zaino in spalla e i bastoncini in mano, mentre loro sbocconcellavano ancora le torte della colazione. Un paio di giovani donne, la prima con gli occhiali, senza zaino e la seconda alta e magra con una maglietta di Snoopy, mi hanno detto i loro nomi, ma li ho subito dimenticati, come mi succede sempre. Una signora dai capelli bianchi e il piglio da montanara, insieme a un’amica, parlava con Guido, un uomo dai capelli ricci e l’esperienza nelle rughe del volto, che aveva realizzato dei bellissimi poster in ricordo della camminata. Poco più in là, un ragazzo solitario, con un bastone di legno, una maglietta senza maniche e l’aria da pastore, se ne stava appollaiato sulla staccionata discosto dagli altri, vicino al gregge di mucche che passava in quel momento. La nostra vera guida era un giovane del posto di poche parole, abbronzato e atletico, che avevo notato arrivando, mentre cercava di far spostare una mucca cocciuta dal parcheggio del ritrovo. Ognuno di noi ha firmato il retro dei poster dei compagni di viaggio, come si faceva con le foto di classe a scuola, come un primo sigillo di amicizia per i giorni che avremmo condiviso. Ma c’era un’altra sorpresa: una busta di braccialetti fatti a mano, offerti dall’associazione Muse Diffuse e il comune di Gressoney. Un filo per tre valli, un filo per ognuno di noi. Ogni braccialetto aveva un simbolo diverso, ispirato alla storia Walser.
Siamo partiti di buona lena, i temporali incalzavano alle nostre spalle, nonostante la giornata di sole. Le nuvole ci scrutavano a distanza, come se avessero deciso di lasciarci salire un po’ per poi scatenarsi quando fossimo stati più in alto, senza possibilità di riparo. Davanti c’erano Roberta e Bruno, insieme alla guida. Poi gli svizzeri, ai quali cercavo di star dietro, il gruppetto di donne esperte camminatrici, Guido, i milanesi, Alessandra e infine Pietro, il ragazzo solitario. Aveva dichiarato di essere timido, e chiudeva il gruppo restando un poco indietro. Ci siamo subito sfilacciati, alla prima salita attraverso un bosco fitto di alberi imponenti. Dovevamo trovare un passo comune, un’andatura che andasse bene per tutti.
Dopo aver raggiunto i primi borghi di case Walser, Oro, Ca’ Vescovo e Rabernardo, con le prime soste per bere, le prime chiacchiere fra noi per conoscerci meglio, ci siamo ricompattati, e anche Pietro ha scalato qualche posizione. A Rabernardo, accanto al bellissimo Museo Etnografico Walser, c’erano le case di Roberta e Bruno e quella di Alessandra, dove aveva lasciato la sua famiglia e il suo zaino. Prima di ripartire, la figlia piccola di sette anni, Matilde, si è unita a noi. Mi sono chiesto se ce l’avrebbe fatta; io stesso, dopo aver letto dislivelli e tempi di percorrenza, ero stato incerto sulle mie forze e il mio allenamento.
La nostra guida, soprannominata Bambi, era della zona, e lo si vedeva dalla luce negli occhi, dalla sicurezza nel passo, mentre conduceva la compagnia sui sentieri che probabilmente lo avevano visto crescere. Ci indicava baite e pascoli di amici e parenti, era orgoglioso del suo territorio, ma si capiva che aveva imparato a risparmiare le parole per conservare il fiato e lavorare di gambe. Lo svizzero chiacchierone, invece, era il contrario. Un po’ cantastorie, un po’ incantatore di serpenti, non perdeva mai il fiato e l’andatura nonostante i fiumi di parole.
Non era la prima volta che camminavo con altre persone, con gruppi di sconosciuti. Ho scoperto che è un modo naturale e semplice per instaurare legami che vanno al di là dell’età, del genere, delle barriere che ci costruiamo più o meno consapevolmente nella vita di ogni giorno. La fatica condivisa, l’obiettivo comune, il contatto con la natura di certo aiutano.
Superati tutti i borghi Walser e la chiesetta di Peccia, dove abbiamo ammirato le installazioni artistiche create apposta per l’evento e ci siamo dissetati grazie alle bevande offerte dai gestori della deliziosa Baita Prato della Croce (una casa walser del 1600 ristrutturata ad arte, in cui si può soggiornare), la salita ha iniziato a farsi più impervia e il dislivello a crescere. Più tardi abbiamo pranzato in una radura silenziosa, all’ombra dei larici, seduti in semicerchio sul prato. I raggi di sole che riuscivano a penetrare le fronde alte degli alberi illuminavano il centro dello spiazzo erboso. Il gruppo era decisamente eterogeneo eppure ci sentivamo già uniti e in qualche modo affini. Pietro ha iniziato ad aprirsi, a parlare di più, mentre ci conoscevamo meglio, raccontando qualcosa di noi agli altri. Intanto Bruno controllava il meteo sul suo cellulare, perché lo spettro dei temporali non ci abbandonava mai. Ripreso il cammino si avanzava uniti, anche se di tanto in tanto ci si divideva in due, perché alcuni avevano il passo più svelto. Alessandra e sua figlia erano le più veloci, e la bambina sembrava non stancarsi mai. Ho provato a ricordare me stesso alla sua età, forse mi sarebbe piaciuto scalare le montagne d’estate, tra torrenti, marmotte e prati fioriti, ma il me stesso di sette anni sembrava così lontano, così imperscrutabile visto dal quarantenne di oggi.
Uscendo dai boschi, si è spalancato il vallone per il colle Valdobbia e il Rifugio Sottile, dove avremmo trascorso la notte. Pietro mi parlava di tutti i fiori che incontravamo lungo il sentiero, da vero esperto mi indicava i più profumati e il loro utilizzo, soprattutto nella preparazione di grappe e liquori. Sfregalo fra le dita, diceva, sentirai che profumo. E intanto aveva guadagnato la testa del gruppo, sembrava il più carico di tutti. Nonostante la stanchezza iniziasse a farsi sentire, parlavamo volentieri quando il fiato lo consentiva e scrutavamo spesso il movimento delle nubi, che pur addensandosi sulle vette intorno sembravano risparmiarci. Guido ha raccontato di tutte le sue salite alla Capanna Margherita, 4554 metri, il rifugio più alto d’Europa. Anch’io ci sono stato, ha detto Pietro. E alla fine aveva raggiunto molti più rifugi di me.
All’improvviso, superato un dosso di rododendri, ecco spuntare il rifugio Sottile adagiato su una conca in cima al vallone; un miraggio dopo tutte quelle ore di cammino. Ma c’era ancora molta strada da fare, il sentiero costeggiava la forra del fiume per poi inerpicarsi a tornanti sulla parete della montagna, lungo la Piana Grande e i Sasselli dell’Asina.
Ci siamo radunati intorno alla croce in ricordo di due viandanti, un ragazzo e una ragazza, morti giovani nel 1820 a causa del freddo e della neve. La loro storia convinse il canonico di Riva Valdobbia a costruire il rifugio Sottile, un riparo per tutti coloro che affrontavano quella lunga traversata verso la valle del Lys e oltre. Mentre lasciavamo riposare le nostre gambe e riprendevamo fiato, il vallone era spazzato dal vento, si sentiva il gorgoglio del fiume più in basso, e ci giungevano gli echi del temporale alle spalle. Non c’erano animali sulle pareti ripide delle vette rocciose intorno al Sottile. Abbiamo provato a immaginare quella stessa vallata immersa nella neve, senza rifugio né ripari, per due giovani che all’epoca non avevano nemmeno un abbigliamento idoneo per ripararsi dal gelo. Su, nel cielo, due uccelli volavano in cerchio sulle creste e sulle nostre teste.
L’ultima ora di cammino è stata la più faticosa: il rifugio sembrava a un passo eppure non si arrivava mai. Evitavo di guardare in cima e mi concentravo sul mio fiato, sul sentiero, sulle rocce sotto gli scarponcini, per scegliere i passaggi migliori e non sprecare energia. Avevo imparato da solo a camminare in montagna, a trovare il passo, a calibrare il fiato. Quando ho alzato la testa, all’ultima curva, ho visto in controluce il gestore del rifugio che ci aspettava – ho immaginato che dovesse essere lui - allora con uno slancio ho percorso l’ultima curva e ho guadagnato la cima. Il rifugio era come nelle foto, spoglio, essenziale, con una campana sopra la porta d’ingresso, la bandiera, panche lungo la parete e poco altro. Ero senza fiato, fradicio, eppure non sentivo più la fatica. Ho pensato al conforto di quel riparo per i viandanti che salivano lassù. Mi sono lasciato asciugare dal vento che s’incuneava nella conca del colle, attraverso le due vallate. La vista si perdeva sui due versanti, e in lontananza si poteva scorgere anche il Col Renzola, dove saremmo saliti il secondo giorno per poi scendere a Estoul, diretti al “Richiamo della Foresta”.
Pietro, che era arrivato per primo, ha offerto un giro di bevute a tutti, la sua timidezza era definitivamente scomparsa. I ragazzi del rifugio, una coppia giovane, si sono presi cura di noi fin dal primo momento. Ci hanno dato da bere, mostrato le camerate, raccontato del rifugio, e poi hanno preparato la cena. L’elicottero per le provviste sale di rado, ci hanno detto, e così spesso siamo costretti a scendere a valle e tornare su con tutto il carico che riusciamo a portare sulle spalle. Intanto il gruppo si è sfaldato, la figlia di Alessandra è crollata per la stanchezza e ha dormito fino all’ora di cena. Io sono andato insieme a Bruno, Roberta e gli svizzeri lungo un sentiero che girava intorno alla montagna, fino a un nevaio. L’idea era di arrivare a un lago lì vicino, ma la neve ce lo ha impedito. Gli altri sono rimasti sulle panche fuori dal rifugio, a godere degli ultimi raggi di sole, mentre le magliette stese sui fili garrivano al vento e le nuvole correvano veloci.
A cena ci siamo divisi in due tavolate, abbiamo mangiato risotto ai funghi, arrosto, purè e piselli, e bevuto vino rosso. Dietro i vetri calava la notte. Durante la cena Pietro è diventato il più ciarliero, ha raccontato storie della sua famiglia, della sua vita, e ho pensato che solo la montagna fa questo effetto, ti permette di vedere il lato luminoso delle persone, di capirle meglio, di andare oltre le apparenze. Alla fine ci siamo ricompattati per le grappe e i caffè, e Pietro è sparito per un po’. Quando è riapparso ha chiesto se qualcuno sapesse suonare la chitarra. Io ho risposto distrattamente, senza pensare alle conseguenze. E pochi minuti dopo mi ritrovavo con una chitarra in mano, tutto il gruppo nella stessa stanza e alcuni amici in più: un trio di maltesi, un ragazzo e due ragazze, che si allenavano su quelle valli per le gare di skyrunning. Abbiamo faticato a trovare canzoni che tutti conoscessero, ma alla fine un paio di pezzi li abbiamo cantati e si è creata una bella atmosfera, gioiosa, senza imbarazzo, gli occhi stanchi e il cuore leggero, mentre fuori iniziavano a cadere le prime gocce di pioggia.
Il mattino seguente ci siamo alzati di buon’ora. Sono uscito sullo spiazzo davanti al rifugio per godermi l’alba, e un vento freddo mi ha investito costringendomi a indossare la giacca a vento con la cerniera tirata fin sotto il mento. Nella notte c’era stato un temporale. Le nuvole ci avevano superato e ci aspettavano sul versante della discesa: sembravano non concedere speranza. La via per Gressoney si prospettava piuttosto ripida, e così abbiamo deciso di metterci in marcia al più presto, sperando di arrivare in fondo prima che la pioggia ci sorprendesse.
La discesa spesso è più faticosa della salita, serve meno fiato, ma ci vogliono più gambe. E la discesa dal colle Valdobbia a Gressoney inizia con un ripido canalone roccioso, poi attraversa un tratto più dolce, dove abbiamo incontrato un nevaio cosparso di piccoli alberi sradicati dalle valanghe e disseminati qua e là. Oltrepassato il fiume e alcune baite abbandonate, si entra nel bosco, dove il sentiero, pur seguendo una serie di tornanti, ritorna a farsi ripido. Non abbiamo parlato molto durante la discesa, eravamo concentrati sulle nuvole all’orizzonte e sul nostro obiettivo: arrivare in fretta a Gressoney, dove una nuova guida ci avrebbe condotto fino a Estoul. Bambi al mattino ci aveva lasciati per tornare a casa, in Val Vogna.
Nel bosco il sentiero era sdrucciolevole e ripido, e la fatica iniziava a farsi sentire, bisognava stare attenti a non scivolare e concentrarsi sui propri passi.
A metà del bosco si è aperta la vista sul paese di Gressoney Saint Jean, e sul castello Savoia. Da lì in poi, non abbiamo fatto altro che pregustarci chi un caffè, chi un cappuccino, ma la fine del sentiero sembrava di non arrivare mai.
Ero in testa al gruppo con Bruno quando abbiamo avvistato le prime quattro pecore. Sono comparse dietro i tronchi degli alberi, dal buio. Il bosco in quel punto è molto fitto. Stavano salendo dirette al pascolo e man mano ne comparivano altre. Non erano quattro, e nemmeno dieci o venti. Poco per volta sono arrivate tutte, sul sentiero e tutto intorno, si muovevano insieme, e sembrava di essere investiti da uno sconfinato fiume bianco. Eravamo circondati. Alla fine c’erano anche quattro cani e per ultimo il pastore. Gli abbiamo chiesto quante fossero. Novecento, ha risposto lasciandoci senza parole. Abbiamo aspettato che passasse tutta la mandria prima di continuare la discesa.
Arrivati in fondo, siamo sbucati vicino all’antico edificio della dogana, proprio dove passavano i viandanti e i mercanti. La nuova guida ci stava aspettando, una signora riccia con una bandana in testa e l’adrenalina addosso. Le abbiamo detto del caffè ma lei era pronta a partire, ha acconsentito solo per farci contenti.
Sulla strada ho parlato con Rosafrancesca che mi ha raccontato della sua casa di famiglia a Gressoney e del desiderio di vivere lì. Dopo il caffè siamo andati a prendere la seggiovia del Weismatten, e mentre Rosafrancesca mi parlava di come era cambiata la pista, che adesso aveva anche l’illuminazione notturna, io pensavo a quella stessa seggiovia, trent’anni prima, con la neve sulle piste, e all’improvviso mi è venuto in mente di quella compagna di scuola che speravo sempre di incontrare, fantasticando di salire in seggiovia proprio con lei, anche se alla fine non è mai successo.
In vetta il cielo era grigio e ventoso ma ancora niente pioggia. Abbiamo pranzato in fretta in un bar ristorante a punta costruito da un architetto e siamo ripartiti al seguito della nostra nuova guida, attraverso i boschi di pino cembro e pino mugo, diretti al festival. La guida era un’esperta di piante e fiori di montagna, ci spiegava quelli velenosi, quelli medicinali, l’uso che se ne faceva in passato e persino quali fiori venivano usati a scopo alimentare, per sopperire alle carenze di minerali nella dieta.
Ero felice di poter approfondire quelle nozioni, ma allo stesso tempo scalpitavo per arrivare al festival. Dopo la salita, il sentiero diventava più dolce e attraversava una vallata erbosa. In cima al col Renzola, arrivati al valico fra Gressoney e Brusson, c’è un muretto sul quale è posta una madonnina bianca. E affissa sul muretto c’è una targa in ricordo di Tolstoy, che nel 1857 era stato proprio su quei sentieri e ne aveva poi scritto sui suoi diari giovanili. La citazione letteraria ci ha avvicinati allo spirito del festival.
Da quel punto era tutta discesa, si seguiva una grande strada sterrata larga e dolce fino a Estoul. Il gruppo era allo stremo, incrociavamo persone che provenivano dal festival e ci guardavano come fossimo l’Armata Brancaleone. Altri invece avevano sentito parlare di noi, e quando ci incontravano dicevano soltanto: “Voi siete quelli della camminata” guardandoci con ammirazione. In testa, la guida di Gressoney parlava in francese con gli svizzeri. A un certo distacco c’era un secondo gruppetto formato da Bruno, Roberta, Guido, i milanesi ed io e in fondo gli altri. La figlia di Alessandra era molto stanca, così Bruno l’ha fatta salire sulle sue spalle, caricandosi anche lo zaino della mamma, che era il più grande di tutti. Prima di arrivare ci siamo ricompattati perché volevamo entrare insieme, così come eravamo partiti. Sulla salita per la radura di larici mi sembrava di tornare a casa, l’atmosfera era la stessa del primo anno, festosa e rilassata allo stesso tempo. C’era il sole, ma nuvole basse avvolgevano le cime dei larici.
Ho fatto da apripista insieme a Roberta e abbiamo varcato la soglia della radura tutti compatti, con gli zaini sulle spalle, gli scarponcini sporchi, le magliette sudate, i volti rossi attraversati da sorrisi. Tempo di guardarci intorno e subito è arrivato Paolo Cognetti, che ci ha accolto con grande entusiasmo e ci ha chiesto di seguirlo sul palco, dove si stava esibendo un attore comico. Noi gli siamo corsi dietro in mezzo al tendone, siamo saliti dietro di lui, che ha interrotto la performance in corso per presentarci. Il pubblico ha applaudito e Roberta ha detto qualche parola sulla nostra avventura. Ce l’avevamo fatta, eravamo arrivati davvero, scalando montagne, evitando temporali, attraversando boschi e nevai. Insieme. È stato un momento che non dimenticherò mai.
Scesi dal palco abbiamo potuto goderci il Festival. Ho salutato un’amica e poi sono tornato insieme ai miei compagni, per trascorrere le ultime ore con loro, girovagando tra gli alberi che ospitavano la mostra fotografica, ascoltando i racconti di Nives Meroi e Romano Benet e cenando sotto il tendone. Erano trascorse meno di 48 ore, ma mi sembrava di conoscerli da una vita. Se chiudo gli occhi e ascolto in silenzio, sento ancora l’accento e le risate degli svizzeri, le storie di Rosafrancesca e di Pietro, i racconti di Guido, le voci di Bruno e Roberta. E spero di ritrovarli presto, alla prossima edizione del festival, magari prima.