Sono una donna di pianura, nata e cresciuta in mezzo alla nebbia e all'asfalto di una città del nord-est. Questa è la prima estate che passo in montagna, quella alta. Prima ci sono stati due inverni.
Come io sia arrivata qua è un affare del destino. Come io sia arrivata al festival è un affare di gambe e valli in discesa e macchine prese in prestito e seggiovie umide e bar deserti e sentieri in salita. Un giorno e mezzo libero che mi è sembrato una settimana di vacanza: finalmente tornavo a vedere il verde, gli alberi, i fiori.
Lavoro in un rifugio fuori pista a duemila seicento metri di altitudine una valle più in là: sono scesa e poi salita e poi scesa ancora tra le malghe e gli alpeggi e i profili di montagne che non conoscevo in una mattina che prometteva pioggia. Ho trovato il festival al bordo di una foresta e forse questa era l'unica cosa che mi aspettassi davvero. Nello zaino avevo un sacco a pelo e un paio di calze di ricambio. Penso di essere stata l'unica a comprare due libri su New York da una bancarella che esponeva quasi esclusivamente libri che parlavano di montagna ma avevo le mie ragioni.
Ho mangiato un panino con le verdure a pranzo e la polenta con le verdure a cena. Appoggiata ad una parete, ho ascoltato chi parlava di montagne resistenti, ho visto uno spettacolo teatrale bellissimo, mi sono fatta incantare dall'unica coppia ad aver scalato tutti e quattordici gli ottomila, mi sono stesa sull'erba senza scarpe nel vano tentativo di farle asciugare, ho gironzolato tra le foto che ondeggiavano bianche e nere contro il marrone dei tronchi degli alberi, ho assistito allo strano corteggiamento silenzioso di un ragazzo solitario da parte di una ragazza con i capelli corti e neri, ho ballato ad un concerto di un gruppo che alcuni erano venuti a sentire apposta e che io non conoscevo, ho dormito nella tenda di una famiglia che aveva un posto in più e ho messo la sveglia alle cinque e mezza del mattino tra il rimbombare ritmico di un dj set che non avevo previsto. La mattina, quando ho aperto la cerniera fuori non c'era nessuno. Sui tavoli di legno qualche birra abbandonata. Mi sono lavata i denti alla fontana e mi sono fermata a leggere ancora una volta la bacheca occupata per buona parte dal mio scambio con i proprietari della tenda 317.
Una volta una persona molto saggia mi ha detto che la montagna non è un'amica né una nemica, è solo montagna e mi ripetevo questo mentre, troppo vestita, arrancavo sulla salita fino al Colle di Ranzola sapendo che, a ritroso, mi sarebbe toccata sì la discesa ma anche un'altra inesorabile salita. Quando finalmente, a cavallo tra le due valli, mi sono ritrovata con il sole in faccia, mi sono domandata che spazio avessi io nel tempo di questa montagna e quale dignità potesse avere il mio stare qui rispetto a quello di chi ci è nato e cresciuto, a quello di chi lo ha scelto con uno di quei per sempre che io non riesco mai a formulare o a quello di chi ha costruito su questi o altri pendii le sfide di una vita. Non sono riuscita a darmi una risposta ma attraversando i prati di fiori gialli, con gli insetti che rimbalzavano sull'erba bagnata al ritmo dei mie passi e la mia casa ancorché temporanea laggiù, appena un po' più in basso e a destra del ghiacciaio, ho pensato che una risposta, forse, non era necessaria.