“All’anno prossimo allora!”
Ci si saluta sorridenti con addosso la stessa euforia che ti lascia una festa. Perché alla fine non è quello che stiamo facendo? Festeggiare la fine di tre giorni incredibili passati insieme. Solo che poi se penso alla parola “fine” mi viene un po’ un groppo alla gola, quella stessa sensazione che provavi da bambina alla terza volta che tua madre ti richiamava e ti trascinava via da casa del tuo amico per ricordarti che ora, davvero, era il momento di andare.
E allora si cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno. È vero, sarà anche appena finita, ma in fondo ci si rivede. Tra un anno, ma ci si ritrova.
E io da bambina facevo questo gioco: quando andavo in un luogo che mi piaceva particolarmente lasciavo sempre una traccia, un qualcosa che, una volta ritornata, mi facesse ricordare che lì c’era stato qualcosa che mi aveva resa felice. Poteva essere un mazzolino di margherite o un mucchio di legnetti in un parco, un disegno in una casa di amici nascosto dietro ad una libreria o sotto un mobile.
Una volta cresciuta, ho scoperto che di tracce se ne lasciano fin troppe e che in montagna, soprattutto, avrei voluto non lasciare in alcun modo segno del mio passaggio e che, anzi, tendevo a prediligere quei sentieri che sembrava non aver mai percorso nessuno. Quello che ho imparato a fare è tendere i sensi, anche quelli che la città manteneva quasi sopiti, e incominciare a riconoscere tutto ciò che anche lì mi aveva fatto provare quella serenità che mi aiutava a identificare quel luogo come casa: il gorgogliare del torrente e la sua acqua ghiacciata, il vento che muoveva dolcemente i larici e spostava le nuvole sulla mia testa, il fischio delle marmotte, il colore del cielo quando si avvicina un temporale.
Ritornare al Richiamo della foresta è cogliere quei segni, quella continua ricerca che finisce per diventare quasi un rituale. Prima si guardano la radura e le montagne attorno, come ad assicurarsi che non si siano mosse nel frattempo. Poi è il momento del bosco: l’inverno è stato clemente con i suoi alberi? Si è aggiunta qualche scultura ad abitarlo?
Infine, passo alle persone: “Lui non lo vedo, ma qui c’è il suo cane. Aspettiamolo, sarà andato a fare due passi qui vicino”. “È impossibile che non ci sia, l’anno scorso ha detto che sarebbe venuto”.
Perché il bello è anche questo: dilatare i tempi, darsi appuntamento un anno per l’altro, sicuri di ritrovarsi e di ritrovare non solo quelle tracce familiari che avevamo lasciato ad aspettarci ma anche qualcosa di nuovo e incredibile. È una continua ricerca, una scoperta di storie che, come orme in un bosco, sembrano nascoste, ma che invece qualcuno paziente ha avuto la voglia di osservare e di raccontare. È bearsi del silenzio di trecento persone che, in una radura a 1800 metri di quota, da questi racconti rimangono affascinati.
Chi ha costruito questo festival ha compiuto un puro e semplice atto di resistenza ai tempi incalzanti della città e a quella retorica omologante che fa sì che certe vite, con le storie incredibili ad esse collegate, passino in secondo piano, lontano sui monti, venendo relegate e dimenticate.
È un atto di resistenza che mi scalda il cuore e mi fa sentire compresa. Perché ciò che qua viene fatto non è semplicemente lasciare una fila di sassolini, come Pollicino, che ti spingono a ritornare, ripercorrendo la strada verso quella che è diventata casa. È qualcosa di più potente: dei semi gettati con cura, che hanno ormai messo radici e sono pronti a germogliare per diventare, un giorno, foresta.